14 AGOSTO 2020
Orazione
commemorativa tenuta dal Prof. Giacomo Verri: Ponte della Pietà – 14 agosto 2020
Torno a pronunciare, dopo sette anni, un’orazione per i cinque partigiani caduti al Ponte della Pietà. Allora concludevo chiedendomi cosa diavolo pensarono da ultimo salendo la breve erta che li avrebbe condotti sulle rotaie, mentre i militi avvolgevano loro la corda al collo e li spingevano a camminare più svelti, o magari li afferravano attorno alle braccia, sulla punta del gomito, per farli salire al parapetto dal quale sarebbero dovuti precipitare. Si erano sentiti addosso le mani dei nemici, ragazzi simili a loro ma che avevano fatto una scelta profondamente diversa, tragicamente sbagliata. Sette anni fa avevo scritto: “mi piace credere che, nonostante tutto, abbiano voluto restare fedeli alla vita, alla loro vita sacrificata per gli altri. Fare la Resistenza in fondo ha voluto dire proprio questo: resistere per vivere, tenere duro, andare contro, combattere, ribellarsi, riuscire a farcela. La parola Resistere disegna nei miei occhi una bocca in salive, la chiostra di denti che stride come un gesso sulla lavagna, le labbra contratte, il muscolo del cuore fatto duro dallo spasimo. Eppure ce l’hanno fatta. Dico i partigiani, i resistenti: donne e uomini irriducibili, fatti di carne resistente, carne buona per faticare, per camminare, per saltare, per sparare, per dare tutto, anche la loro vita perché la vita continuasse dopo di loro”. Quindi oggi, nel tornare a dire grazie a Gino Boccardo, ad Augusto Pescio, ad Aldo Bordiga, a Vincenzo Lazzo, e a Gino Francese, sono spinto a riflettere su quale sia il significato della vita insegnata dalla Resistenza. Perché prima di tutto la Resistenza dei nostri cinque eroi è stata una lezione, la cui essenza non è così facile da cogliere, soprattutto in rapporto al valore che, a tratti, la nostra sensibilità contemporanea assegna all’esistenza quotidiana. Parlo pensando soprattutto ai ragazzi, ad alcuni giovanissimi fruitori di questa cosa straordinaria che è la vita. La vita in tempo di pace. La vita nei paesi del benessere, la vita lontana da povertà, da guerre, da distruzioni, da catastrofi (perché, anche quando sono presenti attraverso l’informazione, sono comunque tenute lontane dalla cortina degli schermi, che mostrano per spettacolarizzare). E forse è naturale così, questa malattia dell’inesperienza è il prezzo da pagare per avere la pace e il benessere. Per cui, di fronte al quesito: qual è la vita insegnata dalla Resistenza, dal sacrificio dei nostri cinque martiri?, la mia prima banale risposta è che il senso della vita di quei ragazzi è la misura di una proporzione, oserei dire giusta. Non voglio sembrare blasfemo; ciò che intendo è che la vita che loro cinque hanno sacrificato aveva una correlazione, per quanto tragica, con ciò contro cui stavano combattendo. Una vita, in poche parole, si sacrifica per qualcosa di grande, anzi di grandissimo, e quel qualcosa era la libertà. La vita la puoi dare in cambio di poche cose: una di quelle è la libertà, un’altra è l’amore, un’altra ancora è forse la sofferenza quando diventa intollerabile. E poi cos’altro? Io, voi, ognuno di noi, per cosa darebbe la propria vita? Per salvare un figlio, la persona amata, un fratello. In ogni caso le conteremmo sulle dita di una mano le cose preziosissime per cui saremmo disposti a sacrificare la nostra vita. Quindi la prima lezione di Gino, di Augusto, di Aldo, di Vincenzo, e ancora di Gino è che la vita ha un prezzo altissimo e che quel prezzo loro lo hanno pagato tutto intero, senza sconti. Anche quando avrebbero potuto averne diritto, quando due di loro caddero a terra perché le corde a cui erano stati appesi avevano ceduto; quando padre Marco Malagola, non ancora frate, allora, giovanissimo, era corso loro incontro, li aveva raccolti da terra, pregato per loro, toccato la testa infuocata e poi era stato insultato da quel maledetto sottotenente nero che aveva voluto che i due ragazzi fossero di nuovo issati là sopra, e impiccati ancora. È davvero possibile impiccare per due volte di seguito la stessa persona? Laggiù lo hanno fatto. E capite anche voi quanto in quel momento la vita e la morte risuonassero nel loro più ispido, raggrinzante, fradicio e gutturale colloquio, quanto la morte che aspettava quei cinque ragazzi fosse il più importante tributo alla vita per la quale avevano combattuto. Bene, in quel momento la morte serviva a definire la vita, a rendere il senso dell’io infinitamente marcato di fronte ad essa. E questa è la prima lezione. Una lezione valida per loro che morivano e che l’apprendevano in quei pochi istanti, magari con la speranza di portarsela dietro chissà dove, nell’acqua, tra le stelle, nel profumo di Dio. Glielo auguro. E spero sia stata una lezione per tutti coloro che si trovavano lì, anche per quelli che avevano sbagliato rotta, fino a quel momento. E magari lo è pure per noi, oggi, almeno fintantoché riusciamo a cogliere il rapporto tra prima e dopo, tra la bellezza del progetto e l’enormità dello sforzo, tra sogno e grandioso fallimento. Una lezione di vita che ha valore solo se si conosce ciò che c’era prima – il fascismo, la mancanza di libertà, la guerra, il dolore – e che conduce a una seconda lezione, una che i nostri cinque eroi non hanno potuto insegnarci. Essi – diciamo così – con il loro sacrificio hanno gettato un seme, un suggerimento, cioè che il martirio crea, per il dopo, uno spazio di possibilità da giocarci nel futuro. Chi ha fatto la Resistenza l’ha fatta per aprire un varco, per generare un terreno di opportunità, per stabilire condizioni di vita che si posizionassero al di là di ciò contro cui i partigiani avevano combattuto. E questa cosa, dal punto di vista politico, è stata la democrazia. Eppure oggi, questo dono preziosissimo e stupendo sembra essere entrato in crisi. E non solo a causa delle derive autoritarie, dei folli populismi, delle minacce del più subdolo razzismo, dell’intolleranza, delle libidini di potere. Argomenti sui quali non vorrei portare il mio discorso, sebbene sia chiaro a tutti che alla base dei mali appena elencati aleggiano le stesse caratteristiche che Primo Levi additava per raccontare le mistificazioni del nazismo: “guerra contro la memoria, falsificazione orwelliana della memoria, falsificazione della realtà, negazione della realtà, fino alla fuga definitiva dalla realtà medesima”. La democrazia è oggi in crisi anche perché non siamo più capaci di riempire quel luogo di opportunità che i partigiani ci hanno regalato con qualcosa di utile, di buono, di proporzionato. Mi chiedo davvero se abbiamo perso il senso delle proporzioni. Forse questa troppo veloce trasformazione del mondo in villaggio globale non ci ha lasciato il tempo di prendere le giuste misure, quelle nostre, di esseri dotati di animo umano. Diamine, i ragazzi impiccati laggiù al ponte sapevano perché morivano, sapevano che soffrire aveva un senso, per quanto crudele fosse. Il loro dolore aveva una proporzione. Ed è proprio la mancanza di proporzione a spaventarmi oggi e a farmi dire che abbiamo smarrito il senso della democrazia. Così ora vi racconterò una cosa che ha apparentemente poco a che fare con la democrazia. La cosa è questa: poco più di un mesetto fa ho letto su facebook il post di un’amica scrittrice, Francesca Maccani, che faceva una riflessione sul punto a cui sono giunti i ragazzini di oggi e sul fallimento del mondo degli adulti. Adulti responsabili, figli della democrazia di questo Paese. Tra le altre cose raccontava di alcuni fanciulli che avevano visionato un video (forse su un sito porno) intitolato 3 girls and a cup, tre ragazze e una tazza. Nel video in questione “le ragazze vomitano e cagano in questa tazza, se la passano fra loro e ne bevono il contenuto e continuano a cagarci e vomitarci”, scrive Francesca. Ora, che gli adolescenti cerchino il superamento del limite è un fatto noto, quasi banale. Ma qui la ricerca del pericolo, del brivido, non ha più nulla di eccitante né di piacevole, né di interessante. Non è come accendere la prima sigaretta, bere al sabato sera, non è neppure come correre come matti con un’automobile. Non c’è alcuna sfida contro l’autorità genitoriale. Non c’è il palpito del proibito. Non c’è più NIENTE. Anzi, c’è una cosa, che mi è subito venuta alla mente, e che mi ha sconvolto: quelle tre ragazze, senza saperlo, ripetono, degradandoli ancora di più, i gesti che quasi ottant’anni prima furono costrette a compiere le donne di Birkenau. Lo scrive Primo Levi ne I sommersi e i salvati: “Le donne di Birkenau raccontano che, una volta conquistata una gamella (una grossa scodella di lamiera smaltata), se ne dovevano servire per tre usi distinti: per riscuotere la zuppa quotidiana; per evacuarvi di notte, quando l’accesso alla latrina era vietato; e per lavarsi quando c’era acqua ai lavatoi”. Dunque perché tre ragazze del 2020 finiscono per umiliare se stesse, il loro corpo, la loro mente, imitando, senza probabilmente saperlo, ciò che la più brutale e cinica delle dittature costringeva a fare decenni fa? Perché queste tre ragazze decidono di fare questa cosa di loro iniziativa? E, se anche giungessimo a pensare che queste tre tizie siano malate, disturbate, patologicamente autolesioniste, non dimentichiamo che quel video è lì per essere guardato, perché qualcuno – e le visualizzazioni sono probabilmente migliaia e migliaia – ne tragga qualche tipo di voluttà, di divertimento, di passatempo, di compiacimento. La domanda è quindi questa: per quale fine quelle ragazze si somministrano tale tormento? Perché molti, moltissimi trovano interessante starlo a guardare? Io non conosco la risposta. Mi è venuto però da pensare ai nostri cinque ragazzi che, nel momento in cui hanno scelto di fare i partigiani, hanno optato per un sogno che sarebbe potuto diventare un tormento, come è accaduto, nell’agonia che li ha soffocati dondolando sotto al ponte; ma è stato un tormento decisivo, importante, direi fecondo. Un tormento che li ha definiti per sempre nel Bene e che ha donato loro la proporzione degli eroi. Che, se vogliamo dirla tutta, è una proporzione sterminata se messa a petto di una tranquilla quotidianità, ma è una giusta e degna proporzione quando affiora dai tremendi giorni della guerra incivile a cui i partigiani furono costretti dai nazifascisti. Quindi sì, vorrei concludere con una sorta di monito, che mi piacerebbe potessero udire anche quelle tre ragazze di oggi e tutti coloro che ne sono stati spettatori. La pace che i partigiani e che Aldo, Gino, Vincenzo, Augusto e Gino ci hanno regalato è un dono prezioso perché difficile da mantenere nel tempo. Essendo, come si è detto, un luogo di splendide e molteplici opportunità, può apparire disorientante, può nascondere, molto più efficacemente di una dittatura, nuovi pericoli, più vaghi, più striscianti, più elusivi. Uno dei quali è proprio l’incapacità di saper riempire quello spazio che i partigiani ci hanno donato con qualcosa che sia ancora dotato di senso. Un senso che, evidentemente, non può mai essere disgiunto dalla memoria, il cui esercizio, a volte, forse spesso faticoso, va di continuo allenato affinché non accada ciò che anni fa Paolo Flores d’Arcais additava come temibile scenario del nuovo millennio: la volontà dell’uomo contemporaneo di rivendicare la rimozione addirittura quale diritto: “il diritto a dimenticare, a rimuovere, a non dover portarsi dietro, nel proprio vissuto quotidiano, la lucida consapevolezza di un passato scomodo”. Pura follia. Quindi cerchiamo di ritrovare le giuste proporzioni, anche se a volte è difficilissimo. Ci riuscì l’uomo più alto che sia mai esistito su questa Terra, Robert Wadlow. Intorno ai vent’anni raggiunse i 2,72 m di statura. Si sentiva un diverso, un errore della natura, un mostro. Suo padre, col denso affetto di chi medica la sofferenza, lo portò un giorno in un bosco di alberi secolari. Lì, per la prima volta, Robert apparve piccolo, giusto, proporzionato. Quindi cosa sono quelle tre ragazze che vomitano, cagano e mangiano ciò che il loro corpo ha eliminato? Cosa passa nella loro testa? Forse che senza quella lurida tazza non sono niente? Quale mostro celano, quale mostruosità compiono nel lager di quel video? Dovremmo tutti quanti aiutare quelle ragazze, simbolo di una società che a volte non funziona, a rendere perlomeno la loro sofferenza meno vuota, maggiormente dotata di senso. Cosa che si può fare solo riempiendo la nostra libertà di consapevolezza, di cognizione del dolore e della gioia, capacità che penso abbiano avuto tutti i partigiani. Non uccidiamo la memoria, dunque, perché finiremo davvero a mangiare merda e vomito dentro a una scodella. |